SU QUEL BALCONE
Otto anni fa ero sporto da questo balcone
quando uscisti per chiedermi
se fosse tutto a posto.
La tua voce lievemente tremava
e il tuo istinto materno voleva
prendersi cura di me.
Il mio cuore affondava in acque di tenebre,
come un singulto,
e non sapevo che dire.
Sembravi di tutti, ma non eri di nessuno,
un raggio di sole che scalda e trascende
ogni senso di misura.
Il flusso della vita era un’irrefrenabile corrente
nella quale eravamo disciolti,
tu un’aquila bianca che squarciava
il mio cielo di pece.
Dallo sciabordio delle pagine sfogliate,
dal sudore impresso sui banchi di scuola,
al tintinnio dei bicchieri festanti,
alle tue risa gioconde come baci di miele
nell’oscurità della notte,
tutto sembrava coperto da una magia,
e in ogni lacrima si nascondeva
il seme della rinascita.
Ogni tua azione sembrava troppo,
agli occhi di qualcuno eri scombinata,
una nota fuori dallo spartito,
per me eri l’unica melodia che si udiva
dai battiti meccanici.
Io ti amavo proprio per questo,
non per come si ama una donna,
ma per come si ama un essere umano.
Ricordo che un giorno piansi pensandoti,
la vita ha scelto di dividerci,
forse in fondo le nostre luci
si dovevano incrociare
solo per quello spazio di tempo.
Eppure mi chiedo lo stesso dove sia finita
quella luce.
Non dirmi ti prego
che questo mondo ti ha corrotto,
che qualcuno è riuscito a sporcare la tua innocenza,
che ti sei fatta erodere
dalla sostanza dei vermi che ti strisciavano
ai piedi.
Otto anni fa, su questo balcone,
ti chiedevi cosa provavo,
ora invece credi di conoscermi,
di sapere tutto di me,
oramai sono solo uno come tutti gli altri.
Allora con la stessa lucidità spiegami
perché dentro di me c’è ancora qualcosa di te,
qualcosa che non vuol morire,
e perché nella mia mente non riappari più
come prima,
ma nel mio cuore c’è ancora quella te
che non morirà mai.